Sei soddisfatto del tuo lavoro?
Il tempo che dedichiamo al lavoro è mediamente molto più alto del tempo attivo che trascorriamo con la famiglia, gli amici o in attività legate alle nostre passioni. Di conseguenza, la qualità del tempo che dedichiamo al lavoro è di grande importanza per il nostro benessere psicofisico: se sul lavoro ci sentiamo demotivati, frustrati o stressati, ci troviamo a vivere stati d’animo negativi per la maggior parte della giornata e questi possono perturbare facilmente il nostro benessere. Infatti, vita professionale e vita privata non sono comparti separati. Come probabilmente avrai già sperimentato, l’insoddisfazione sul lavoro arriva facilmente a pervadere la vita privata, poiché l’identità professionale è parte integrante dell’identità personale. Essere insoddisfatti sul lavoro si traduce quindi, spesso, in tensioni familiari, nervosismo generalizzato o ritiro sociale. Acquisire maggior consapevolezza sul problema e adoperarsi per risolverlo è un atto doveroso, per noi stessi e per i nostri affetti.
La qualità del lavoro deve essere una priorità sia per il singolo che per l’organizzazione: le Risorse Umane, tutte, sono il motore pulsante delle aziende e contribuiscono in modo diretto a determinarne o meno il successo, per questo vanno riconosciute nel loro valore e salvaguardate.
Quando sei demotivato o stressato riesci a dare il meglio sul lavoro?
La risposta è scontata…
Tutti gli imprenditori e i manager ne sono consapevoli?
Purtroppo non tutti, ma sono sempre più numerose le realtà che adottano le buone pratiche per rendere di qualità il lavoro dei propri dipendenti e favorire la massima espressione del potenziale di ognuno di loro. Non si tratta solo di dare il giusto stipendio (fattore imprescindibile) ma di qualcosa di più.
Un buon lavoro non è tale solo in termini di retribuzione: i fattori che lo determinano sono diversi e sono soggettivi, dipendono dagli specifici bisogni di ognuno di noi. Bisogni relazionali, di stima sociale, di crescita, di espressione della propria creatività, di tempo per gli affetti, per le passioni, etc. Oggi tutti quanti sentiamo parlare degli studi sulla Great Resignation (fenomeno che ha recentemente portato gli Stati Uniti ai massimi livelli di dimissioni volontarie da generazioni e che sembra dilagare ormai in tutto il mondo) ma le ricerche che dimostrano che il lavoro ha anche una valenza sociale e psicologica, oltre che economica, sono numerosissimi già da tempo. Tra questi c’è quello di Marie Jahoda, pioniera della psicologia sociale a livello mondiale che nel secolo scorso condusse ricerche relativamente alle conseguenze psicologiche delle trasformazioni industriali e della disoccupazione e che arrivò a definire il “modello di deprivazione latente”, secondo il quale il lavoro fornisce ad ognuno di noi sia dei benefici espliciti, come il denaro e i benefit, sia dei benefici impliciti (latenti), grazie ai quali possiamo soddisfare una serie di bisogni psicologici essenziali per il nostro buon equilibrio.
Tra questi ci sono:
– la strutturazione del tempo
– i contatti sociali
– l’identità sociale
– uno scopo collettivo
– un’attività regolare.
Secondo questo modello, gli effetti più gravi sulla salute mentale si hanno nei casi di totale deprivazione latente, ovvero nella disoccupazione. Se hai vissuto o stai vivendo un lungo periodo senza lavoro, conoscerai bene le sensazioni che si provano: alla mancanza di reddito si sommano il dolore per la sensazione di perdita di un ruolo sociale, la minor possibilità di coinvolgimento in attività e relazioni extra-familiari, etc. Un malessere che può essere percepito come estremo.
Ma il malessere, seppur in differenti gradi di intensità, emerge anche quando il lavoro c’è ma non soddisfa parte dei nostri bisogni. Ed è qui che probabilmente si inserisce la Great Resignation di oggi: anche un lavoro ben pagato può destabilizzare il nostro equilibrio psicologico se è legato a fattori che per noi sono problematici. Pensiamo a quando il tempo dedicato al lavoro non ci lascia spazio per la vita privata, oppure a quando i contatti lavorativi sono negativi, come nel caso in cui i nostri bisogni sono inascoltati o quando ci sono relazioni conflittuali con il capo o con i colleghi, oppure, ancora, pensiamo a quando ci ritroviamo a lavorare senza stimoli o senza uno scopo se non quello di ottenere uno stipendio. Ci sentiamo insoddisfatti, smarriti e avvertiamo la necessità di dare una svolta alla nostra vita.
Possiamo migliorare queste condizioni?
Certamente sì!
Datori di lavoro e manager possono fare molto per creare cultura e clima aziendale positivi, così come ogni lavoratore può intervenire attivamente per crearsi le condizioni più adatte alle sue specifiche esigenze di benessere. Nel momento in cui arrivano i primi sintomi di malessere è bene non perdere tempo, ma affrontare la situazione per risolverla prima che degeneri. Ad esempio, se il lavoro non ci regala più gli stimoli di una volta si può intervenire parlandone con il capo, per identificare insieme delle opportunità di job enlargement o job enrichment. Per buona parte delle persone, la possibilità di crescita professionale (e, di conseguenza, personale) ha un alto potenziale motivante. A questo proposito, è bene ricordare l’effetto positivo sull’identità professionale dato dall’autorealizzazione che Abraham Maslow, quello della nota piramide dei bisogni motivazionali, definisce come l’esigenza di “diventare ciò che si è capaci di diventare” e di “attuare le proprie potenzialità”.
Un altro esempio molto attuale è legato alla possibilità di lavorare da casa: se abbiamo apprezzato lo smart working perché ci ha permesso di conciliare meglio vita e lavoro ma adesso si prospetta il dovere di tornare fissi in ufficio, possiamo concordare con i vertici la migliore soluzione per continuare a lavorare in remoto per X giorni alla settimana (molte aziende lo fanno, le soluzioni esistono!).
Se non c’è la possibilità di realizzare le proprie potenzialità (tecniche, creative, sociali o quant’altro) o non si riesce a bilanciare in modo efficace vita e lavoro si cade rovinosamente nell’insoddisfazione e, nel lungo periodo, nello stress lavoro-correlato.
Che fare nei casi più complessi in cui il problema sembra non avere soluzioni nel breve periodo?
Nei casi in cui, ad esempio, c’è un clima aziendale negativo, c’è un mancato allineamento con i valori aziendali o non c’è la possibilità di ottenere un buon work-life balance, le riflessioni circa il cambiamento possono essere perturbanti e, probabilmente, le soluzioni dovranno essere dirompenti. Il rimanere passivi, o il rimandare il problema, mantiene l’organismo in uno stato di malessere e diventa impellente l’esigenza di conoscere il metodo e le strategie per trovare un lavoro soddisfacente in breve tempo, un lavoro di qualità, con un inserimento più adatto in un’azienda migliore per noi.
Chiunque viva un’esperienza di lavoro non gratificante o frustrante ha il dovere di innescare un cambiamento, per garantirsi il diritto a una vita migliore, dentro e fuori l’azienda.
“L’unico modo di fare un ottimo lavoro è amare quello che fai. Se non hai ancora trovato ciò che fa per te, continua a cercare, non fermarti”. – Steve Jobs
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